La figura complessa e affascinante di don Ciro Annicchiarico, il mitico “Papa Ggiru” le cui gesta sono state ampiamente cantate e narrate, tra storia e leggen¬da, in una ricca bibliografia italiana ed estera (in par¬ticolare anglo-americana e tedesca), appartiene al periodo preunitario, prepa¬ratorio e anticipatore delle istanze risorgimentali.

Un personaggio che si colloca perciò nel com¬plesso problema del brigan¬taggio: un fenomeno antico, mai del tutto risolto nel Meridione, nonostante le repressioni più o meno violente da parte dei sovrani che si susseguirono, francesi, borboni o piemontesi, a segno delle tante cause di ordine sociale, politico o culturale in esso convergenti.
Non valsero, infatti, né le riforme istituzionali, né la riorganiz¬zazione politica e sociale imposte nel periodo napoleonico, né tanto meno la reazione dei Borboni tornati al potere, per capire e risolvere le esigenze di una società che aspirava a un nuovo ordine sociale e politico vagheggiato e rivendicato dai ceti più intrapren¬denti e illuminati, come molti intellettuali e militari o come diversi ecclesiastici e rappresentanti della piccola borghesia e degli artigiani.

Nacquero così le variopinte sette segrete e le tante organizzazioni clandestine che miravano, seppur in maniera non sempre chiara e lineare, all’instaurazione di un nuovo ordine di cose basato essenzial¬mente su rivendicazioni costituzionalistiche.
La vicenda uma¬na e brigantesca di don Ciro si pone a cavallo del periodo francese e di quello borbonico con caratteristiche che non coincidono del tutto con quelle del classico brigante: dalla scelta forzata di una vita raminga e banditesca a seguito di un presunto omicidio per gelosia commesso in persona di un altro ecclesiastico, all’adesione piena di un brigantaggio politico in linea con gli ideali delle sette segrete, specie carbonare e massoniche di Terra d’Otranto.

Ciro Nicola Annicchiarico nasce a Grottaglie il 15 dicembre 1775 da Vincenzo e da Ippazia D’Alò. Gli Annicchiarico erano stati da sempre contadini. Il futuro brigante seguì gli studi a Taranto in uno dei seminari più antichi e importanti del regno, dove avevano studiato tanti eccle¬siastici famosi, come il suo concittadino S. Francesco de Geronimo, poi gesuita e grande missionario di Napoli.
Il 1799, anno fatidico per le note vicende relative alla rivolu¬zione napoletana, fu per lui anche l’anno dell’ordinazione sacerdotale avvenuta tra maggio e luglio. Ottenuta l’aggregazione al Capitolo, concessa a pieni voti, gli venne subito affidato l’incarico di maestro di canto gregoriano e di “Procuratore dei morti”, carica di un certo prestigio che svolse fino al 10 giugno 1803.
A Grottaglie, col ritorno del partito realista e con la denuncia di quanti avevano preso parte alla festa dell’Albero della Libertà e avevano appoggiato i Giacobini, nessuno nascondeva di nutrire ti¬mori per il futuro. La fazione realista, dopo il fallimento della “Repubblica Napoletana” aveva risollevato la testa e si vendicava dei torti subiti nel ‘99 perse¬guitando l’avversa parte politica.
II vaso traboccò nell’estate del 1803 con un delitto che, oltre a sconvolgere il piccolo centro di Grot¬taglie, era destinato a determinare e a condizionare tragicamente non solo la vicenda umana di un giovane e brillante sacerdote, ma anche quella di molte altre persone della Provincia di Terra d’Otranto.

Il 16 Luglio 1803, festa della Madonna del Carmine, dopo la pro¬cessione e mentre tutti erano intenti a guardare i fuochi, un incappucciato colpì con uno stilo acuminato, sotto l’arco oscuro della Madonna del Lume, l’infelice chierico Giuseppe Motolese, figlio del notabile Nicola Motolese, rivale in amore di don Ciro Annicchiarico. Ambedue, infatti, frequentavano la bella e giovane vedova Antonia Zaccaria detta “la Curciola”.
Il padre dell’ucciso e il notaio Ilario Lacava, entrambi ferventi realisti e contrari ai francesi, accusano dell’omicidio D. Ciro Annic¬chiarico, filo francese e giacobino. Un incaricato della Regia Udienza di Lecce raccoglie le testimonianze e ricostruisce l’episodio criminoso attribuito all’Annicchiarico che, consapevole dell’opinione pubblica contraria e delle circostanze sfavorevoli, è già scappato dal paese. Don Ciro comprende ormai che per lui non c’è più speranza di rientrare nella vita sociale e che è inutile combattere contro un destino crudele che lo vuole bandito da tutto e da tutti. Organizza così una banda di briganti accogliendo disertori e gente arrischiata, coi quali compie varie violenze, furti e uccisioni e fa risuonare tristemente le contrade del Salento delle sue gesta.

Alla prima fase del brigantaggio comune segue la fase di un vero e proprio brigantaggio politico dell’Annicchiarico che riorganizza e si mette alla testa della temibile Società de i Decisi. Questa, al pari delle altre sette massoniche e carbonare, aveva una struttura e un simbolismo propri. Agli affiliati si concedeva una pa¬tente scritta col sangue che aveva come motto e programma le parole Tristezza – Morte – Terrore – Lutto; nel diploma erano disegnati i simboli della Massoneria (cubo, squadra e triangolo), il fascio littorio, il berretto frigio, folgori che colpiscono una corona regia, un triregno e un diadema imperiale.
Il nuovo ordine si sarebbe fondato sull’Adelfia o fratellanza dei popoli, sulla Filantropia o amore dell’Umanità, sul Patriottismo Europeo in vista di una grande federazione repubblicana del vecchio continente. E proprio dal Salento, estrema provincia europea, sarebbe scoccata la scintilla di questa “Grande Rivoluzione”; di modo che proprio la vagheggiata “Repubblica Salentina” avrebbe costituito il primo anello della “Grande Repubblica Europea”.
Il governo centrale, preoccupato dai disordini e dalle continue violenze in Terra d’Otranto, affida la repressione del pericoloso brigantaggio al generale mercenario irlandese Riccardo Church che, forte della concessione da parte del Re Ferdinando dell’Alter Ego e facendo affidamento sull’ampia rete di spie, riesce (alla testa di un piccolo esercito personale) a restringere il campo d’azione del brigante che ripara nel territorio vicino al paese natale.
Fallisce così la sollevazione generale avrebbe dovuto prendere le mosse dal paese di San Marzano, considerato come un sicuro rifugio della banda. In effetti il 25 gennaio 1818 Don Ciro è alla masseria Neviera, dove deve so¬stenere uno scambio di fucileria contro il capitano Montuori; trova quindi scampo nella vicina San Marzano. Qui però puntano anche i soldati e i cavalleggeri guidati dal capitano Montuori e dal maggiore Bianchi. I briganti si difendono, aiutati an¬che dalla popolazione, ma sono sopraffatti: scappano quasi tutti, don Ciro compreso; alcuni sono fatti prigionieri e tra questi il fondatore e gran maestro dei Decisi Pietro Gargaro, il registratore dei morti e capo della decisione grottagliese Gaetano Cafiero, Vito De Serio, Raffaele Zaccaria, Pietro Barbuzzi, Francesco e Vito Lecce. Questi ultimi, “per essere stati presi con le armi alla mano”, furono fucilati in Francavilla, il 3 febbraio, da una commissione militare; le loro teste vennero inviate ed esposte nei rispettivi paesi; nella circostanza fu sequestrata anche l’interessante documentazione consistente nella bandiera della setta, negli elenchi e nelle patenti degli affiliati.

Sfuggito alla cattura, don Ciro, in¬sieme con i compagni trova scampo nella masseria di Scasserba, a soli tre chilometri da Grottaglie, sulla strada che porta a Taranto. Il sus¬seguirsi degli eventi crea preoccupazione e timore anche nel paese natale per la minaccia del generale Church di assoggettarlo al ferro e al fuoco! Ma la situazione è radicalmente cambiata: quando arriva la notizia dei briganti accerchiati a Scasserba, si suonano le campane e molti si precipitano verso la masseria per l’assalto finale o per curiosare.
Il 6 febbraio al Generale che si trovava a Ostuni perviene il dispaccio tanto atteso: “Eccellenza. Ciro è nella torre di Scasserba strettamente circondato. Non può scappare. Egli ha ucciso e ferito molti dei nostri uomini. Le truppe sono entusiaste; la milizia si con¬duce bene. I volontari furono i primi a scoprirlo. Si difende dispera¬tamente. Il vostro arrivo finirà l’affare, se pure non sarà finito prima. Le truppe di Francia, Corsi e Bianchi circon¬dano Scasserba mentre i cannoni minacciavano Grottaglie, ma anche la città è adesso per noi…”

L’episodio di Scasserba ha suscitato sempre stupore e ammirazione: “E qui avvenne uno dei più grandi episodi di questa storia, perché don Ciro con soli quattro uomini, dal fastigio della torre, tenne a bada oltre mille soldati”. Vista l’impossibilità di resistere, dopo una trattativa col capitano Bianchi e con la promessa di aver salva la vita, Don Ciro si consegnò ai militari borbonici che, lungi dal mantenere la promessa, lo incatenarono e lo condussero subito a Francavilla. Qui, senza un vero e proprio processo, la sera dell’8 febbraio 1818, venne fucilato nella pubblica piazza. La sua testa, essiccata e posta in una gabbia di ferro, rimase esposta sulla torre dell’orologio del suo paese natale per più di un anno.
Seguì una tragica serie di fucilazioni di briganti che parve dare una soluzione all’annoso problema del brigantaggio. Il generale Church affidò alla crudezza delle cifre l’esito della sua missione in Ter¬ra d’Otranto: la Commissione Militare da lui istituita, sottopose a processo fino a tutto il 1818 ben 227 persone, delle quali 88 vennero condannate a morte e subito giustiziate, 60 inviate in galera per tutta la vita; 13 condannate alla galera per periodi limitati, 34 passate al giudizio della corte criminale e (ad eccezione di due) rimesse in libertà.

Non senza motivo qualcuno ha intravisto nella figura del nostro Personaggio, come anche in quella dei Vardarelli, le peculiari caratteristiche del cosiddetto “bandito sociale” nel quale i poveri, i diseredati, gli oppressi, gli sfruttati non possono non riconoscersi in loro incondizionatamente.
A distanza di duecento anni, queste tragiche vicende verranno rievocate a Grottaglie proprio giovedì 8 febbraio 2108, alle ore 18.30, nel Convegno organizzato dal locale Rotary Club, nel salone attiguo al chiostro dei Paolotti.

Dopo i saluti iniziali del presidente Mauro Roussier Fusco, interverranno il magistrato Martino Rosati, lo storico Rosario Quaranta e il regista ed attore Alfredo Traversa. Le conclusioni del Convegno sono affidate al Governatore del Distretto 2120 Puglia e Basilicata Gianni Lanzilotti.